Furio Colombo – L’Unità – 4 Maggio ‘08
Chi avesse ascoltato Radio radicale la notte del 27 Aprile (tra il primo e il secondo giorno di ballottaggio) avrebbe potuto accumulare qualche dato utile per rispondere alla domanda sulla trionfale ascesa di Gianni Alemanno in Campidoglio.
Dunque, Radio radicale. Era in onda Marco Pannella, che invitava a chiamare il numero della radio per parlare di politica, una iniziativa civile che un po’ chiarisce e un po’ svelenisce. Ha chiamato Antoniozzi, lo ricordate? Era l’avversario di Zingaretti per la Presidenza della Provincia. Antoniozzi è una persona mite e confida a Pannella tutti i numeri sull’ondata di criminalità che – dicono loro – si è abbattuta su Roma, e chiede misure urgenti.
Pannella ascolta e poi, dopo i giusti complimenti e incoraggiamenti al candidato, gli fa sapere che anche lui, Pannella, ha davanti i dati del ministero dell’Interno sugli ultimi anni di misfatti e delitti in Italia e a Roma. «Tutto giusto, i tuoi e i miei dati vengono dalla stessa fonte e coincidono. Solo che, se fai caso, ci sono alcune righe in più in ogni pagina. Ecco, te le leggo: omicidi, meno 22 per cento. Aggressioni e violenze, meno 16 per cento …». L’elenco è continuato nel silenzio educato e – si deve supporre – anche imbarazzato, del candidato Antoniozzi. Pannella, molto gentilmente ha dato la sola notizia importante in quelle ore. La criminalità c’è, a Roma come dovunque. Ma, come aveva detto in un lungo e clamoroso articolo il New York Times, a Roma meno. In Italia scende.
Curioso che nessuno abbia notato che la continua distorsione dei dati reali da parte della destra – a Roma e in Italia – è una implicita ma pesante offesa alle forze dell’ordine. Infatti la campagna elettorale di Roma è stata condotta come se i sindaci italiani fossero anche capi della polizia come negli Stati Uniti. Come si sa in questi mesi nella città di Chicago si spara tra gang di ragazzi, e non di rado si contano quattro-cinque morti per notte.
Quasi certamente una simile tragedia costerà la carriera politica del Sindaco e il posto del capo della polizia, che – nelle città americane – è nominato dal sindaco. Ma non ha neppure sfiorato le elezioni primarie.
In Italia, per la prima volta, un sindaco italiano annuncia la espulsione di tutti i criminali stranieri (in campagna elettorale ha lanciato e ripetuto una cifra: ventimila, una espulsione di massa) ovvero una decisione che nel diritto italiano non è competenza comunale. E ordina che i vigili urbani d’ora in poi siano armati, una decisione che chiederebbe un intervento del prefetto.
I vigili urbani armati sono regolati da quali leggi e addestrati secondo quali regolamenti? Come si coordineranno con le tre polizie italiane, i Carabinieri, che rispondono al ministro della Difesa, la Polizia, di cui è responsabile il ministro dell’Interno, e la Guardia di finanza che – nonostante il diverso parere del generale Speciale – risponde al ministro dell’Economia?
E che cosa sta dicendo Alemanno al Comandante dei Carabinieri di Roma, al capo della Polizia della capitale, mentre si affretta – in modo concitato, come sotto la spinta di una vasta emergenza – a creare e convocare un “comitato per la sicurezza”? Tutti inetti, distratti, incapaci?
Una cosa è certa. Il progetto “paura” (benché la criminalità sia la più bassa d’Europa, ed è evidente che lo è per merito di Carabinieri e Polizia) ha funzionato bene. I dati sono falsi, l’insulto alle Forze dell’ordine è evidente, l’iniziativa delle ronde si sta diffondendo in tutto il Nord: cittadini coraggiosi che sfidano la notte e il pericoloso immigrato mentre i Carabinieri giocano a carte. E quando Sky Tg 24 prova a misurare con un sondaggio il parere del pubblico, ci fa sapere che il 78 per cento dei cittadini vuole armare i vigili urbani, e solo il 22 per cento è contrario. Intanto nessuno protegge gli imprudenti che tentano di attraversare sulle strisce bianche. E nessuno mette sotto controllo le orde di motorini che non rallentano mai e puntano direttamente sui passanti.
Il percorso adesso è abbastanza chiaro. Ancora due passi, la corsa ad armarsi dei cittadini e la pena di morte, e saremo un vero Paese moderno come l’America dei film più allarmanti. Ed è una delle risposte mancanti al risultato elettorale che ci ha colpiti, ma anche sorpresi e disorientati. O meglio, alla vastità di quel risultato.
Il progetto “paura” ha dato i suoi frutti fra telegiornali e programmi pomeridiani che improvvisamente hanno abbandonato i delitti come a Cogne e le stragi a rovescio (padani che sterminano la famiglia del tunisino) come a Erba, e hanno puntato tutti gli obiettivi sull’immigrazione e sui suoi mali, badando a mettere in sequenza e connessione continua solo i delitti dell’immigrazione. Ma del lavoro degli immigrati come immenso contributo alla vita italiana non si parla mai.
L’operazione “paura” è la mossa giusta. E ha stabilito chi è il vero erede del fu Movimento sociale italiano diventato An, diventato Fiuggi, diventato Casa delle Libertà e apparentemente scomparso come partito, dentro il Pdl. Non è Gianfranco Fini, che ha iniziato il suo viaggio di fine corsa con il mini-discorso di insediamento come presidente della Camera (una ventina di minuti in cui ha deliberatamente omesso il nome di Oscar Luigi Scalfaro quando ha reso omaggio agli ex presidenti della Repubblica viventi).
È Gianni Alemanno che ha puntato tutto sul passato (paura, stranieri minacciosi, sacri confini, la patria, commissario speciale alla sicurezza, vigili urbani armati, difesa d’emergenza della capitale in pericolo) e ha vinto.
Sì, certo, contano molto, in questa pagina della soria italiana, anche i tassisti romani. Anzi essi sono un monumento in auto bianca con tassametro della nostra storia. La loro rivolta, con violente aggressione fisiche come in una curva da stadio, e incitamenti del leader di destra in persona, Gianni Alemanno, che ha proclamato in quel momento il suo legame fortissimo con il passato, sono il punto e il momento in cui sono state decise le elezioni romane: con un risoluto ritorno alle corporazioni. In questo modo sono stati scolpiti nella roccia capitolina i due punti chiave del programma vincente.
Il primo è che destra vuole ruolo e destino fisso e ciascuno al suo posto: chi è straniero è straniero, chi ha una licenza se la tiene per sempre, i cambiamenti si impediscono con la forza, e l’indottrinamento e la paura sono altre cose dai fatti veri. Per mesi i tassisti romani hanno infaticabilmente lavorato, passeggero per passeggero, corsa per corsa, in modo che passasse – oltre la denigrazione di Prodi, Veltroni e Rutelli – anche il messaggio diretto agli utenti: «siamo cattivi, non vi conviene».
Il secondo è che – in questa Italia, in questa Roma, in queste elezioni – la destra di mercato (che negli altri Paesi democratici è il bagaglio culturale dei partiti che – appunto – si definiscono di destra) non esiste. Qui destra vuol dire il passato, persino se adattato a certi limiti e rituali della democrazia. E il passato, quando si rivolta in forma di presente, ha una faccia strana, stravolta.
Penso ai turisti che, la sera del 28 aprile, nella città più turistica del mondo, invece di ottenere un servizio di trasporto pubblico, hanno visto lunghe colonne di taxi imbandierati mentre i guidatori della città neo-peronista gridavano “liberi, finalmente siamo liberi” , una scena simile alla Rivoluzione dei Garofani del Portogallo dopo Salazar. Ma allora era la fine del despota, della dittatura, della morte in prigione, della guerra in Angola. Roma – o almeno la visibilissima Roma dei tassisti – ha celebrato la sconfitta della proposta di moltiplicare le licenze, esattamente come la fine di un regime.
O forse come l’inizio. Perché la corporazione dei tassisti – a questo punto – co-governa la città. E molte vendette, anche gravi, verso chi si ambientava nella zona dei perdenti, devono ancora essere consumate, e non tutte riguarderanno solo l’incarico o posto di lavoro.
Sono i giorni, le ore, in cui Gianfranco Fini, diventando presidente di un ramo del Parlamento, si permette di condannare “i danni del relativismo culturale” che è esattamente ciò che si fa in Parlamento, la tua verità a confronto con la mia, segue dibattito. Un Parlamento senza relativismo è un Camera dei fasci e delle corporazioni. O è un conclave senza la Fede.
Sono i giorni in cui Bossi dice, uscendo da Montecitorio dove il nuovo presidente ha appena salutato il tricolore, che «quella non è la mia bandiera. La mia è la bandiera verde della Padania». Bossi ha appena detto – con linguaggio islamico – che «trecentomila martiri con fucili caldi sono a mia disposizione» nella sua mitica regione. Si può dubitare del suo controllo sulle parole. Ma tutto ciò è compatibile con il giuramento di un ministro della Repubblica?
Quanto più in basso si deve scendere per provocare un sussulto di difesa delle istituzioni italiane?
Ma il vero pericolo è la fragilità opportunistica del contenitore Italia. Armi ai vigili urbani, ronde di guardia padana, espulsioni di massa decretate dal sindaco, prefetti che tacciono e accettano tutto, la Tv che asseconda, i cronisti con le domande concordate, le authorities diversamente abili, i giudici resi cauti e i titoli dei giornali che proclamano: «Riforme insieme». Con chi, con Bossi? Con i tassisti?