Minacce, aggressioni, agguati. In Colombia gli operai iscritti al sindacato rischiano la vita ogni giorno. Qual è la responsabilità dell’azienda? L’inchiesta di Mark Thomas.
Di Mark Thomas. Da Internazionale N. 766 del 17/23 Ottobre 2008
Bogotà può vantarsi di essere una città moderna, con un centro finanziario e perfino dei grattacieli. Ma il mondo del commercio internazionale sembra molto lontano quando si passa accanto ai venditori di sigarette sfuse e ai piccoli negozi con la merce che arriva fino al marciapiede. Lasciando la confusione mattutina delle vie laterali, in pochi minuti si raggiunge Teusaquillo, dove le strade sono più larghe e ci sono meno biche. Un tempo i ricchi vivevano qui, ma se ne sono andati da un pezzo. Al loro posto sono arrivati avvocati che difendono i diritti umani, associazioni e ong.
Sulla facciata di una casa con un muro basso di mattoni, la scritta che prometteva “morte ai sindacalisti” è stata cancellata con una mano di vernice: Ora niente annuncia che questa casa anonima ospita il Sindacato nacional de trabajadores de la industria de alimentos ( Sinaltrainal, sindacato nazionale dei lavoratori dell’industria alimentare). Il Sinaltrainal è il più grande sindacato nel “sistema coca-cola” della Colombia e rappresenta più della metà dei lavoratori organizzati di questa società. Dopo più di dieci anni di attacchi e intimidazioni, i suoi iscritti sono diminuiti. Oggi negli impianti dove viene imbottigliata la coca-cola gli iscritti sono 350.
Nella sede del sindacato incontriamo Giraldo e Manco. Arrivano in giorni diversi, danno le loro testimonianze separatamente ma raccontano la stessa storia. I manifesti appesi nella stanza dove parliamo mandano messaggi al boicottaggio e chiedono giustizia: ci sono pistole dipinte in rosso e in bianco, i colori della Coca- Cola. I nomi e le foto dei sindacalisti morti sono dappertutto: Giraldo e Manco li conoscevano, erano amici e parenti. E raccontano come sono morti.
Oscar Albero Giraldo Aranco, ha 42 anni, ma ne dimostra di più. La Colombia è il paese più pericoloso al mondo per gli iscritti ai sindacati: dal 1986 ne sono stati uccisi 2.500. “fare il sindacalista in questo paese significa camminare con una lapide sulla schiena”, mi dicono la prima volta che ci incontriamo. E hanno un’aria stanca, come se avessero trasportato davvero quel peso sulle spalle.
Nessuna Condanna.
Giraldo è cresciuto a Carepa, Urabà, nel nord-ovest della campagna colombiana vicino alla frontiera con Panama. Ha cominciato a imbottigliare la Coca-Cola nel 1984, nell’impianto di Bebibas y Alimentos de Urabà. Quando lo raccontava in giro i suoi amici si congratulavano perché aveva trovato un buon posto. Ed era davvero così. Il sindacato aveva fatto molto per gli operai, garantendo premi, straordinari e assistenza sanitaria. Nel 1994, però, le scritte sui muri annunciarono l’arrivo dei paramilitari a Carepa: “Siamo qui”. Poco dopo comparvero anche i cadaveri.
Il primo lavoratore e sindacalista assassinato a Carepa è stato Josè Eleazar Manco, nell’aprile del 1994. Il secondo fu ucciso qualche giorno dopo. Era il fratello di Giraldo, Enrique. Andava sempre al lavoro con la moto di un amico. Quella mattina tre uomini sbucarono al lato della strada e puntarono la pistola contro la moto. Lo costrinsero a fermarsi e lo trascinarono nei cespugli. Quando Giraldo arrivò a lavoro tutti parlavano del sequestro. Presto le ipotesi più pessimiste si trasformarono in certezza: il corpo di Enrique fu trovato sul ciglio della strada.
I gruppi paramilitari colombiani si sono formati durante il conflitto tra lo stato e la guerriglia rivoluzionaria. Nel 1982 alcuni ufficiali agli ordine del generale Landazàbal, il ministro della difesa, lavorarono con multinazionali e allevatori per organizzare e finanziare dei “Gruppi di difesa”. In teoria avrebbero dovuto combattere i gruppi ribelli di sinistra, ma presto i paramilitari si legarono ai cartelli della droga e all’esercito. Formarono le squadre della morte, aggredendo e uccidendo chiunque fosse sospettato di sostenere i guerriglieri di sinistra, cioè tutti quelli che lavoravano nelle organizzazioni per i diritti umani e nei sindacati. Ancora oggi il ritornello comune nella classe dirigente e tra le forze di sicurezza è che i guerriglieri e i sindacalisti sono la stessa cosa.
Il leader dei paramilitari Carlos Castaño dichiarò che il 70% dei finanziamenti alla sua organizzazione proveniva dall’industria della cocaina. Ma Castaño era anche un sostenitore delle politiche economiche neoliberiste e degli investimenti delle multinazionali in Colombia. Perché, quindi, le aziende nazionali e internazionali non avrebbero dovuto appoggiarlo?. In una intervista Castaño dichiarò che dietro agli attacchi dei parlamentari c’era sempre una ragione: “I sindacalisti, per esempio. Impediscono alle persone di lavorare: per questo li uccidiamo.”
Secondo la confederazione internazionale dei sindacati, solo l’1 per cento degli assassini dei sindacalisti è stato condannato, E il presidente A’lvaro Uribe non ha fatto niente per cambiare questa situazione. “In Colombia nessuno uccide i lavoratori”, ha dichiarato, aggiungendo che nel movimento sindacale ci sono delle “mele marce”.
Giraldo convive con la morte del fratello da 14 anni. Nessuno è stato accusato per l’omicidio di Enrique. “Non ci sono state molte indagini”, spiega. Un anno dopo fu ucciso Enrique Gòmez Granado, un leader del Sinaltrainal che lavorava nell’impianto di imbottigliamento di Carepa.: gli spararono il 23 aprile 1995 sulla porta di casa, sotto gli occhi della moglie e dei figli.
Quando anche altri leader sindacali furono minacciati, diventò chiaro che si trattava di una campagna contro il sindacato dell’impianto della Coca-Cola. I sindacalisti erano pedinati all’uscita del lavoro e ricevevano messaggi intimidatori. I dirigenti scapparono in massa a Bogotà e gli operai dell’impianto di Carepa rimasero senza un vero sindacato. Così cominciarono a riunirsi in segreto. “decidemmo di creare un nuovo sindacato clandestino”, racconta Giraldo. Il presidente era Luis Hernàn Manco Monroy (Manco).
Lettera di dimissioni
Come presidente della nuova organizzazione sindacale, Manco ha collaborato alla stesura di una proposta di contratto collettivo. E il sindacato è uscito allo scoperto. “Informammo la Coca-Cola che avevamo una nuova segreteria. Così cominciarono gli incontri con i dirigenti dell’impianto”.
Il direttore di allora conosceva i paramilitari. Una volta, racconta Manco, andò a bere con i comandanti locali fuori dallo stabilimento. “Incontrammo i comandanti Cepillo e Caliche al chiosco:stavano bevendo con il direttore dell’impianto. Lui diceva che, se avesse voluto, poteva eliminare il sindacato in un batter d’occhio”. All’epoca, sostiene Giraldo, non erano molto preoccupati: “Non sapevamo casa ci aspettava”. Lo avrebbero scoperto presto: il 6 dicembre 1996 fu il giorno più nero della storia di Carepa.
Il corpo di Isidro Gil giaceva dentro all’impianto. La prima pallottola lo aveva colpito in mezzo agli occhi. Gli altri cinque colpi erano sati sparati per sfregio. Un altro leader sindacale era stato ucciso. I due paramilitari erano arrivati in motocicletta e avevano raggiunto il gabbiotto della sicurezza accanto al cancello principale, dove lavorava Isidro. Manco stava lavorando ad una macchina poco lontana. Il direttore era scomparso. “La linea di produzione si fermò”, racconta Manco, “ma nel pomeriggio rimanemmo in fabbrica perché eravamo troppo spaventati per uscire. Non lavoravamo, aspettavamo e basta”.
Anche Adolfo Luis Cardona, un militante sindacale denominato El Diablo e che è stato anche un calciatore abbastanza famoso, aveva visto Isidro morto. Mentre i suoi amici e colleghi di lavoro aspettavano nello stabilimento, lui andò a Carepa. I paramilitari lo riconobbero e gridarono che il comandante locale, Cepillo voleva vederlo. “Vieni, non ti succederà niente”, dissero. “Sali sul camion ti ci portiamo noi”. El Diablo, invece, si mise a correre. Scappò lungo la strada del villaggio gridando: “Van a matar a mì”, mi vogliono uccidere. Corse verso il commissariato di polizia, che stava a quattro isolati di distanza. I paramilitari lo inseguirono, uno in moto e gli altri a piedi. Gli davano la caccia alla luce del sole, sotto gli occhi di tutti, ma nessuno fece niente. El Diablo entrò nel commissariato chiedendo protezione e asilo. I poliziotti si strinsero nelle spalle: “che possiamo fare?”, chiesero. Ma alla fine lo scortarono fino a casa, aspettarono che la famiglia preparasse le valigie e li accompagnarono all’aeroporto. Andarono prima a Bogotà e poi negli Stati Uniti, dove El Diablo vive ancora oggi.
La mattina c’era stato l’assassinio di Isidro Gil, il pomeriggio il tentato rapimento di El Diablo. Quella notte gli uffici del Sinaltrainal a Carepa, colpiti con delle bombe incendiarie, furono completamente distrutti. Manco si era nascosto, ma il giorno dopo Cepillo fece circolare la voce che voleva parlargli. Manco accettò e si incontrarono in una gelateria di Carepa. C’erano anche altri due sindacalisti. Cepillo, un uomo grassetto di circa 25 anni, era seduto ad un tavolo con un gruppo di paramilitari. “Cepillo disse che erano stati loro ad uccidere Isidro e a incendiare la sede del sindacato. Spiegò anche che il sindacato era finito, perché era la stessa cosa della guerriglia”, racconta Manco. I paramilitari comunicarono i loro ordini: alle nove del mattino del giorno successivo tutti gli iscritti al Sinaltrainal furono convocati nell’impianto di imbottigliamento e costretti a firmare una lettera di dimissioni dal sindacato. Le lettere sembravano preparate da una persona che lavorava per la Coca-Cola.
Come Gap e Nike
A Carepa il sindacato era stato distrutto. I dirigenti erano in clandestinità, in esilio o morti. Gli iscritti spaventati dalle pallottole,dalle minacce e dalle intimidazioni, avevano rinunciato nero su bianco ai loro diritti. Nello stesso periodo i dirigenti della fabbrica introdussero una riduzione dei salari. Secondo la Sinaltrainal, gli stipendi dei lavoratori specializzati scesero da 380-450 dollari al mese a 130: il salario minimo in Colombia. Interpellata sulla questione,la Coca-Cola non ha voluto fare commenti né rispondere alle domande.
A Bogotà Manco e Giraldo vissero per due mesi nella sede del sindacato: non avevano nessun altro posto dove andare. Alla fine, la famiglia di Giraldo lo raggiunse e lui si trasferì. Da allora non ha più avuto un lavoro a tempo pieno. “Non sono riuscito a guadagnare granché. Ho fatto solo lavoretti con contratti da tre o quattro mesi. Ci sono giorni in cui non abbiamo niente da mangiare”, racconta. “essere costretto a vivere a Bogotà è orribile. Ho perso la mia casa, la mia famiglia, tutto”, afferma Manco. La sua famiglia e rimasta a Carepa.
“Le accuse serie hanno bisogno di una risposta seria”, ha detto l’amministratore delegato della Coca-Cola, Neville Isdell, a proposito delle denunce contro gli imbottigliatori colombiani della società. Secondo il Sinaltrainal gli omicidi dell’impianto di Carepa facevano parte di un piano su scala nazionale per colpire il sindacato: i paramilitari avevano ucciso sette sindacalisti, gli imbottigliatori avevano rapporti con i paramilitari e i dirigenti dell’impianti erano accusati di comportamento antisindacale, intimidazioni e molestie ai lavoratori.
Quel’è stata la risposta della Coca-Cola? Il suo sito web mostra l’unica revisione di bilancio pubblica dell’impianto d’imbottigliamento in Colombia. La revisione è stata svolta nella primavera del 2005, più di otto anni dopo l’omicidio di Isidro Gil. La revisione, condotta dalla Cal safety compliance corporation, si concentra soprattutto sul rispetto della legge: il rapporto riferisce di varie violazioni delle norme in materia di salute e sicurezza, tra cui l’assenza di un dispositivo di protezione per un contenitore di sciroppo, un numero insufficiente di estintori e una documentazione inesatta su un dipendente. In seguito sono state adottate le misure necessarie per adeguare le norme in materia di sanità e sicurezza. Ma finora la Coca-Cola non ha indagato sui presunti rapporti dei dirigenti dell’impianto d’imbottigliamento colombiano con i paramilitari.
Il quartier generale dell’azienda ad Atlanta, ha negato “ogni cllegamento con qualunque violazione dei diritti umani” e ha preso le distanze dagli imbottigliatori, affermando che “la Coca-Cola non possiede e non gestisce nessun impianto d’imbottigliamento in Colombia”. Questo è il metodo seguito dal “sistema Coca-Cola”, che agisce come una sola entità ma sostiene di non avere responsabilità legali nei confronti della Coca-Cola Company. La Coca-Cola non possiede gli impianti di imbottigliamento, gli imbottigliatori lavorano in franchising.
E’ una caso simile a quello di Gap e Nike negli anni novanta. I giganti dell’abbigliamento avevano esternalizzato la loro produzioni nelle fabbriche dei paesi in via di sviluppo. Nike e Gap non costringevano i lavoratori a un orario lunghissimo per uno stipendio da miseria, ma al loro posto lo facevano gli appaltatori. Secondo chi accusa le multinazionali, però, le aziende avevano l’obbligo di far rispettare i diritti umani in tutta la catena di produzione e per questo le costrinsero ad adottare dei provvedimenti. Indipendentemente da dove siano violati i diritti umani, se sull’etichetta appare il nome di un’azienda questa ha la responsabilità di risolvere la situazione. Nel caso della Coca-Cola questo ragionamento è ancora più valido. Anche se la produzione era stata data in franchising a Bebidas y Alimentos e a Panamerican Beverages (Panamco), la società deteneva il 24 per cento delle azioni di Panamco. Quindi aveva una grande influenza sulla gestione dell’azienda. Anche Hiram Monserrate, consigliere municipale di New York, crede che la Coca-Cola sia corresponsabile. Per incontrarlo sono andato a New York.
Passare all’azione
Monserrate rappresenta il 21esimo distretto, nel Queens, un quartiere che guarda Manhattan dall’altra parte dell’East River, dove le case sono molto più piccole e i salari più bassi. La linea politica di Monserrate, un ex marine, è quella di un democratico del Queens: un misto di liberismo in questioni come l’immigrazione unito a una forte vena populista. Negli ultimi anno ha criticato duramente la Coca-Cola. Ha lavorato con il fondo pensioni della città di New York per capire come usare il suo pacchetto di azioni della Coca-Cola in modo da influenzare la società, presentando le sue critiche alle riunioni degli azionisti. Inoltre ha attaccato la Coca-Cola nei campus statunitensi promuovendo il boicottaggio dei suoi prodotti.
Nel 2003 il consigliere ha incontrato alcuni funzionari del Sinaltrainal a New York e ha trovato così convincente il loro racconto da organizzare il viaggio di una delegazione in Colombia l’anno successivo. “Volevo saperne di più”, spiega. Secondo Monserrate bisognava invitare anche i rappresentanti americani della Coca-Cola. “Avrebbero potuto far parte della delegazione, ma si rifiutarono”. Il rapporto di Monserrate del 2004 denunciava l’inerzia dell’azienda e degli imbottigliatori e una allarmante lassismo.
La delegazione non ottenne il permesso di visitare gli impianti di imbottigliamento, ma fu ricevuta da Juan Manuel Alvarez e Juan Carlos Domìnguez, due rappresentanti di Coca-Cola Femsa, un’enorme società d’imbottigliamento che opera in diversi paesi del centro e del sud America. La delegazione chiese cosa avevano fatto per indagare sui presunti rapporti con i paramilitari. “In un primo momento”, si legge nel rapporto, “le accuse sono state respinte”, ma poi “Alvarez e Domìniguez hanno ammesso che i funzionari della Coca-Cola non avevano mai svolto indagini su queste denunce né sulle centinai di violazioni dei diritti umani contro i lavoratori della società”.
Monserrate si china verso di me e dice: “Isidro Gil fu ucciso nell’impianto di imbottigliamento. Basta questo per attribuire la responsabilità del suo omicidio alla società. C’è un rapporto di casualità tra la morte dei sindacalisti e il lavorare per la Coca-Cola. Per questo la società di Atlanta ha l’obbligo di fare chiarezza. Coca-Cola, come qualunque altra multinazionale, deve interessarsi a quello che avviene nelle imprese affiliate. Non si può dare la colpa al governo del paese in cui ci si trova. La Coca-Cola a il suo logo sono conosciuti in tutto il mondo. Provate a immaginare se negli Stati Uniti, in un impianto della società, un operaio venisse ucciso perché iscritto al sindacato. Scoppierebbe uno scandalo enorme”. La Coca-Cola rappresenta il capitalismo americano. “E il capitalismo americano non dovrebbe mai permettere che i lavoratori subiscano violenze o siano uccisi perché si organizzano per difendere i loro diritti. Che immagine si darebbe, altrimenti, degli Stati Uniti?”. Gli omicidi di Carepa furono l’inizio di una nuova ondata di violenza e di intimidazioni. A quel punto il Sinaltrainal decise di passare all’azione.
Nel luglio del 2001 il sindacato ha avviato un’azione legale negli Stati Uniti contro la Coca-Cola Company e i suoi imbottigliatori colombiani e nel 2003 ha lanciato un appello per il boicottaggio internazionale dei prodotti Coca-Cola. Le imprese imbottigliatrici hanno reagito trascinando il sindacato in tribunale, perché sostenevano di essere stati calunniati e diffamati. E hanno chiesto perfino 500 milioni di pesos come risarcimento danni. Nel 2004 la causa è stata dichiarata infondata. Secondo la Coca-Cola, nel corso degli anni i suoi imbottigliatori hanno più volte denunciato pubblicamente la violenza contro gli iscritti al sindacato.
L’azione legale del Sinaltrainal ha avuto fasi alterne. E’ cominciata nel luglio del 2001, quando il sindacato United Steelworkers of America e l’International labor Rights fund hanno promosso un Alien tort claims act (Atca) per conto del Sinaltrainal al tribunale federale di Miami. L’Atca permette che aziende e singoli individui siano sottoposti a giudizio negli Stati Uniti per complicità nei crimini di sequestro, tortura e omicidio commessi fuori dal paese. Il Sinaltrainal che chiede un risarcimento di 500 milioni di dollari, accusa le imprese imbottigliatrici Panamco e Bebidas y Alimentos di aver “incaricato o comunque guidato i paramilitari che hanno assassinato, torturato, trattenuto illegalmente o messo a tacere i leader sindacali”. Inoltre sostiene che la Coca-Cola, in quanto azienda madre, è indirettamente responsabile. Le imprese imbottigliatrici colombiane respingono ogni accusa.l
Secondo la Coca-Cola,gli imbottigliatori sono delle imprese autonome di cui l’azienda non deve rispondere. Inotre la società “nega qualunque violazione dei diritti umani e qualunque altra attività legale legata all’impresa in Colombia o in altri posti del mondo”. “La Coca-Cola Company”, spiegano i dirigenti, “non possiede e non gestisce nessun impianto d’imbottigliamento in Colombia”.
Gli avvocati del sindacato sostengono che la Coca-Cola controlla le sue imprese imbottigliatrici tramite un accordo chiamato “contratto degli imbottigliatori”. La loro tesi è questa: la Coca-Cola dà in licenza la produzione delle sue bevande, fornisce lo sciroppo con cui farle e stabilisce quali tipi di bottiglie, lattine, procedimenti industriali, pubblicità e promozioni gli imbottigliatori devono usare. Esercitano così un certo grado di controllo legale e economico. Inoltre l’azienda non solo possiede una “quota di controllo del 24 per cento” delle azioni Panamco, ma ha anche due posti nel consiglio di amministrazione della stessa società.
Il nuovo MCDonald’s
In una sentenza del Marzo del 2003 il giudice Martìnez della corte distrettuale di Miami ha stabilito che la causa contro Panamco e Bebidas y Alimentos poteva andare avanti. Era la prima volta che un giudice statunitense autorizzava una causa contro una società per presunte violazioni dei diritti umani commesse all’estero. Il giudice però ha respinto la causa contro la Coca-Cola Company perché “il contratto degli imbottigliatori” non dava alla società il pieno controllo dei rapporti sindacali.
Alla riunione annuale degli azionisti nel 2005 Neville Isdell ha dichiarato: “Non ci sono minacce né tentativi della direzione di attaccare o intimidire i lavoratori perché aderiscono a un sindacato. I dipendenti dei nostri partner colombiani per l’imbottigliamento lavorano in strutture che rispettano e proteggono i loro diritti”.
E’ significativo che l’amministratore delegato del marchi più famoso del mondo si sia sentito costretto a difendere l’azienda, che da parte sua dichiara di incontrare regolarmente i ministri del governo colombiano per impedire ogni forma di violenza contro i sindacalisti. Nel 2006 il giudice Martìnez ha revocato la sua precedente decisione e ha respinto la richiesta di giudizio contro le imprese imbottigliatrici, sostenendo questa volta che la causa non poteva essere presentata negli Stati Uniti per “Difetto di giurisdizione”. Il 31 marzo 2008 gli avvocati del Sinaltrainal sono ricorsi in appello contro entrambe le decisioni e aspettano una risposta nel 2009, Se avranno successo, la causa potrà essere discussa e il sindacato potrà presentarsi in tribunale negli Stati Uniti contro la Coca-Cola e i suoi imbottigliatori.
In tutto il mondo il boicottaggio della Coca-Cola ha avuto esiti alterni. A Dublino, il Trinity college e l’Università hanno votato per “cacciare la Coca-Cola dal campus” e si sono rifiutati di vendere i suoi prodotti nelle strutture studentesche. Lo stesso hanno fatto la New York University e la Michigan University negli Stati Uniti. In Gran Bretagna il loro esempio è stato seguito dalle università del Sussex, di Manchester, di Middlesex e della London’s school of oriental and african studies. Anche se di solito i contratti con le università statunitensi ammontano a milioni di dollari, probabilmente eliminare la Coca-Cola dai Campus non inciderà sul bilancio di un’azienda che l’anno scorso ha dichiarato utili per 5,98 miliardi di dollari.Ma l’attenzione dei mezzi d’informazione e titoli come “la Coca-Cola è diventata il nuovo Mac Donald’s”, sul The Guardian, o “la nuova Nike” su The Nation, hanno contribuite a ridurre il cosidetto “valore del marchio”. Questo valore è quello che trasforma un liquido scuro, dolce e frizzante in un prodotto desiderato e venduto in tutto il mondo. Nel 2007 il valore della Coca-Cola era stimato da Business Week/Interbrand in 65.324 milioni di dollari. Era in testa alla classifica dei marchi di successo , ma valeva 2.201 milioni di dollari meno del 2005.
Comprare il silenzio
Bisognava fare qualcosa. In pubblico la Coca-Cola ha definito l’azione legale del Sinaltrainal come un’accusa “datata” ed “una vecchia storia”. Ma dietro le quinte si è impegnata nelle trattative con il sindacato per risolvere la questione. La decisione del 2006 non era stata presa da Martìnez durante un’udienza della causa, ma serviva a stabilire se i tribunali degli Stati Uniti fossero la sede giusta per il processo. E quando Martìnez ha dichiarato che i tribunali americani non avevano la giurisdizione, gli avvocati del sindacato sono stati liberi di ricorrere in appello riportando la società sul banco degli imputati.
Se l’appello venisse accolto, comincerebbe il processo e la Coca-Cola Company avrebbe l’obbligo di consegnare documenti interni che precisano i suoi rapporti con gli imbottigliatori. Non posso parlare a nome dell’azienda, ma credo che questa prospettiva non sarebbe piacevole. Sei settimane prima della decisione di Martìnez, il 19 Agosto 2006, la Coca-Cola Company ha cominciato a trattare con il Sinaltrainal. Quando ho chiesto alla Coca-Cola un commento sulle trattative, un portavoce le ha definite “fruttuose e informative”. Lo scopo dei colloqui, secondo la società, era “valutare se si potesse raggiungere una soluzione patteggiata tra le parti”. In breve la multinazionale stava cercando un accordo fuori dalle aule. Con un patteggiamento di questo tipo arrivano moltissimi soldi. Anche se non sono in grado di rivelare la cifra esatta offerta al Sinaltrainal e ai querelanti, mi sembra di capire che ha sei zeri dopo il simbolo del dollaro e un paio di numeri in mezzo.
Se la società stava offrendo dei soldi, quali erano le condizioni che accompagnavano l’offerta? Ho parlato con Ed Potter, direttore delle relazioni sindacali a livello internazionale e profondo conoscitore di questi negoziati. Gli ho ricordato che la Coca-Cola aveva dei precedenti in questo campo: “Si raggiunge un accordo economico, ma una clausola dell’accordo è che non devi più parlare, stai zitto o te ne vai”. Potter ha risposto: “in linea generale ci sono molte soluzioni possibili. Lei ne ha descritta una sola”. Il Sinaltrainal non ha usato gli aggettivi “fruttuose e informative” per descrivere le trattative. “si tratta di un processo che è durato quasi una nno e mezzo. Abbiamo parlato per trovare una soluzione del conflitto, ma senza risultati”, sottolinea Edgar Paez, funzionario internazionale del sindacato. E’ seduto nel suo ufficio nello stesso tavolo dove Giraldo e Manco hanno portato la loro testimonianza. L’unico motivo che ha spinto la Coca-Cola a trattare, sostiene, “è che non vogliono che continuiamo a denunciarli. La società voleva comprare il silenzio delle persone coinvolte. Dà un po’ di soldi alle vittime in modo che non denuncino il problema”.
I negoziati si sono interrotti all’inizio del 2008. La Coca-Cola ha dichiarato che “non è stato possibile trovare una soluzione definitiva. Si è arrivati a una fase di stallo e in questo momento non si prevedono altre discussioni”. Probabilmente lo stallo è stato provocato dalle condizioni imposte dalla Coca-Cola: la società pagherebbe milioni di dollari, ma tutte le persone coinvolte nell’azione legale che lavorano per la Coca-Cola Femsa dovrebbero lasciare il posto. Non potrebbero più lavorare per gli appaltatori della Coca-Cola. E soprattutto sarebbero legalmente obbligate a non criticare mai più la Coca-Cola.
Secondo Paez, questo succede “non solo in Colombia ma in tutto il mondo. Volevano farci firmare un accordo in base al quale nessuno avrebbe più denunciato la Coca-Cola per il resto della sua vita”. In effetti l’accordo gli avrebbe impedito di partecipare a eventuali campagne di contestazione contro qualsiasi multinazionale in affari con la Coca-Cola. Dal giorno in cui firmavamo al giorno in cui morivamo. L’allontanamento dei leader sindacali – di fatto il loro imbavagliamento – significherebbe la fine del sindacato. Negli impianti della Coca-Cola il Sinaltrainal smetterebbe di esistere.
Il soldi erano sul tavolo e tutto quello che il Sinaltrainal doveva fare era accettare e prenderli. Così gli uomini e le donne che avevano combattuto per il diritto di aderire al sindacato sarebbero stati messi a tacere. Per persone come Giraldo e Manco, il risarcimento era una cifra che potevano solo sognare, nel senso letterale della parola.
Il sindacato ha rifiutato di firmare e di eseere messo a tacere. Lasciando alla Coca-Cola una “vecchia storia” che non vuole essere dimenticata.