Quanto accaduto lo scorso 21 settembre in via dei Volsci, in occasione della inaugurazione del circolo culturale Arci Darfur, ha fatto il giro della rete. In breve, un gruppo di rifugiati sudanesi viene aggredito da alcuni individui con epiteti razzisti del tipo “scimmia, torna a vendere banane nel tuo paese”, “negro ti uccido”, per poi passare alle aggressioni con un grosso coltello ed una pietra, anche in presenza di una bimba di quattro anni, figlia di uno dei rifugiati.
Nelle settimane precedenti i rifugiati avevano ricevuto costanti aggressioni razziste e ci sono stati due tentativi d’incendio del locale con due bombe carta. Quanto accaduto ha suscitato un dibattito che non può non riguardarci e interrogarci: il fallimento di quelle esperienze che tutti noi riteniamo essere luoghi di sinistra, essere sicuramente luoghi antirazzisti e dove l’antirazzismo non è una categoria astratta ma una definizione concreta e praticata nella vita di tutti i giorni. E ciò specie in quartieri storici della sinistra come San Lorenzo. Quanto accaduto è un fallimento per tutti, come giustamente sottolineano alcuni responsabili politici del cento sociale 32, perché le problematiche che loro stessi si trovano ad affrontare giorno per giorno sono le più disparate in una città che non offre servizi e politiche giovanili alternative alla strada.
Il lavoro svolto negli anni dal centro sociale 32 è stato coraggioso e di valore e auspichiamo che continui ad essere così. Altrettanto di valore è il progetto del circolo culturale Arci Darfur, “Tutt@ a scuola”. Quest’ultimo ha l’ambizione di raccogliere fondi per comprare il necessario per permettere ai bambini e alle bambine sudanesi, profughi in Ciad, di studiare. I rifugiati che hanno aperto il circolo culturale a San Lorenzo hanno affrontato la guerra civile, molto intensa nel loro Paese e in particolare nel Darfur: secondo le stime ONU, dal 2000 il conflitto ha provocato 200.000 morti e centinaia di migliaia di profughi sia nel Sudan che negli stati confinanti. Molti sudanesi hanno cercato rifugio in Ciad, ed è per questo motivo che nasce il progetto di creare il progetto della scuola nel deserto, nel campo di Bredjing.
I rifugiati sudanesi presenti a Roma capiscono molto bene l’importanza del diritto allo studio. Hanno affrontato e affrontano quotidianamente le contraddizioni di una città e di un Paese come l’Italia dove l’accoglienza e i servizi subiscono continui tagli. Dalla stazione tiburtina, dove dormivano in quello che l’allora sindaco Veltroni chiamava “Hotel Africa”, con la loro forza e determinazione ne hanno fatta di strada: oggi hanno la voglia di fare politica e noi abbiamo il dovere di sostenerli e di fare politica con loro proprio perché non si verifichino ancora fatti come quelli dello scorso 21 settembre. Diffondere la cultura antirazzista e favorire l’impegno politico è nostra cura, come lo è non tarpare le ali a chi sente l’esigenza di impegnarsi in tal senso.